Come stai con la tua fede? Io credo in te per noi. Omelia per la 19ma domenica del tempo ordinario

Miei cari,
il nostro vescovo Franco Giulio, all’inizio del suo ministero novarese, scrisse la sua prima lettera pastorale, intitolata “Come stai con la tua fede?”. L’intento dichiarato dal nostro vescovo era quello di «fare il check-up della propria fede» (1) così come in famiglia si vanno a verificare le condizioni fondamentali per cui ci si vuole bene e si continua ad avanti. Tuttavia, l’intento della lettera pastorale non voleva essere la dimostrazione dell’atto della fede che c’è, anche se incerto o in difficoltà, piuttosto era destinata a «ritrovarne i passi fondamentali».
È quello che ci offre la pagina odierna del vangelo (Mt 14,22-33) di questa 19ma domenica del tempo ordinario, nella quale si narra di un Gesù che sembra apparire dapprima assente; poi compare come un fantasma nella notte; infine, dirompe sulla scena vigorosamente con la sua voce che calma il vento e offre la sua mano forte, afferrandoci quando si sta per affondare: il tutto in un crescendo – passatemi l’espressione – di una liturgia fatta di onde, di tempesta, di buio, quale è quello che accade sovente nella vita di ciascuno.
Ebbene, anche in questo tempo di pandemia, nel quale abbiamo verificato l’inconsistenza e la fragilità della nostra umanità, torna opportuno riflettere proprio sulla qualità della nostra fede a partire da questa pagina evangelica odierna e riferirsi anche alle parole che il nostro Vescovo ci aveva rivolto in quell’anno. Ma soprattutto, questo, come risposta ai numerosi interrogativi che ora, superata l’emergenza, continuano a risuonare di fronte ad un cambio di passo che ci viene chiesto per non tornare nella disumanità, ma per imboccare una strada nuova per ripartire umanamente e cristianamente.
Vi suggerisco perciò quattro punti per la vostra riflessione personale.

1.     La fede: un dono di Dio a tutti ma da ri-accogliere continuamente
Il primo è costituito dalla fede intesa come dono di Dio offerto indistintamente a tutti ma da ri-accogliere e far proprio quotidianamente.
Mons. Brambilla era stato chiaro e scriveva che «la fede è un dono non perché Dio la dà ad alcuni e non ad altri»; piuttosto, rendendola disponibile a tutti, la «si può accogliere solo nella forma dell’affidamento, della fiducia, della confidenza non solo con Dio, ma anche con la vita, col mondo, con gli altri», dentro, cioè, le relazioni fondamentali della vita: il rapporto uomo-donna, il rapporto genitori-figli, il rapporto di amicizia-fraternità. Queste relazioni – ci indicava il nostro vescovo – «sono già abitate dalla fiducia, dall’affidamento, dalla confidenza, dalla dedizione», poiché senza questi «la vita non vive. Noi non ci accorgiamo che tutti li facciamo già tutti i giorni, anche chi si dichiara laico e non credente». Eppure, nonostante questi siano semplicemente i preamboli della fede, è proprio dentro queste esperienze che appare «sempre una finestra che guarda verso l’Alto».
Occorre però riflettere come, parlando di fede, vada superata l’immagine umana del dono: quella, cioè, che lo descrive come tale quanto più è selettivo, esclusivo, raro. Il modo di possedere la fede, al contrario, «è quello di lasciarci possedere dalla fede, di riceverla, di accoglierla. San Paolo dice: per tutta la vita ho cercato di afferrare Cristo fino a capire che sono stato afferrato da Lui. Questa è la traduzione concreta di come la fede sia dono».
In queste parole di mons. Brambilla non possiamo non cogliere come lo spaesamento degli apostoli in preda alla tempesta e ai venti, narratoci oggi dall’evangelista Matteo, sia la manifestazione di quanto sia difficile lasciarsi possedere dal dono della fede, nonostante Gesù sia sempre presente, nonostante le difficoltà che la vita ci riserva, nonostante gli apostoli, «vedendolo camminare sul mare, furono sconvolti e dissero: “È un fantasma!” e gridarono dalla paura».

2.     Il contrario della fede: l’idolatria e non l’incredulità
Come uscire da questo sgomento degli Apostoli e nostro? È necessario fare un secondo passaggio e domandarsi prima di tutto quale sia l’opposto della fede, che non solo fa gridare l’uomo dalla paura ma anche lo fa sentire abbandonato nella paura.
A dispetto del pensar comune, il contrario della fede non è l’incredulità, ma per dirla con le stesse parole usate da mons. Brambilla «è l’innalzare incenso ad una libertà che si pensa senza debiti nei confronti delle relazioni sociali». Il contrario della fede è, dunque, l’idolatria, quella nel quale a prendere il posto che compete a Dio sono quegli idoli che ci rendono schiavi, ben simboleggiati nel passo evangelico odierno, non solo dalla furia della natura che si leva contro la barca degli apostoli, ma dall’intima certezza che solo con un atto di autosufficienza ci si possa salvare dall’incombente pericolo: infatti, non è forse quello che fa l’apostolo Pietro, sfidando il Signore? Come lo descrive bene l’evangelista Matteo: «Pietro allora gli rispose: “Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. Ed egli disse: “Vieni!”. Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: “Signore, salvami!”».
Ecco: anche oggi come in ogni epoca, si ripete questa scena, soprattutto dopo la presente pandemia, in cui le nostre libertà fondamentali sono state limitate e vengono, riguadagnate man mano che l’emergenza va attutendosi; dove però tutto questo ha lasciato conseguenze di non poco conto sulle nostre relazioni personali, famigliari, sociali, economiche, lavorative a tal punto che l’intero nostro modo di vivere occidentale è sotto shock, stenta a riprendersi e a comprendere quale sia la buona strada sulla quale ripartire, perché è ormai chiaro a tutti che se niente sarà come prima, non è altrettanto palese su quali versanti si orienterà il nostro cammino futuro.
Mons. Brambilla lo aveva sottolineato già sette anni fa, descrivendo gli idoli moderni, sui quali ci siamo arenati e ai quali abbiamo sacrificato, anche da cristiani, la nostra persona. Così scriveva: «Parto dal mito dell’eterna adolescenza: gli adulti che fanno credere ai giovani che diventar grandi è brutto: non riuscendo a educare invitano a restare eternamente adolescenti. Vi è poi il progresso scientifico ad ogni costo, anche a quello di passar sopra le regole morali e coinvolgendo le persone, ma non con un vero criterio umano. Un terzo è la morte del prossimo: soprattutto nella città abbiamo tanti vicini ma non vi è più un prossimo, con tante forme di affollamento che generano solitudine, incapaci di trasformarsi. Un altro idolo è l’individualismo che ci rende malati, che è la rappresentazione della società che pensa il rapporto con gli altri come successivo, quando ne ho voglia, ma non per trovare me stesso, che non vede il bisogno dell’altro per costruire se stessi perché è un rapporto così gratuito da essere superfluo». Ancora due idoli sono descritti nella lettera: l’avidità che corrompe i rapporti sociali e la separazione della finanza da lavoro e impresa: «Si noti che lavoro e impresa sono sullo stesso lato, hanno un rapporto reciproco di necessità, sono una vita concreta. Quando la finanza si sgancia dalla fatica, dal lavoro, dalla creatività, dall’intrapresa sociale, allora diventa solo una rappresentazione, come scatole cinesi per continuare a generare valore ma senza più riferimento a un profitto che era quello dell’impresa che rischiava; oggi è tutto legata alla gestione autoreferenziale dei capitali: questo è il motivo della crisi».
Ecco: oggi come allora noi siamo come Pietro che, in preda alla paura dello spirare dei venti, del crescere delle onde, della tempesta incombente, osa sfidare non tanto il Signore, ma piuttosto la sua fragile umanità, dicendo scioccamente: «“Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”».

3.     L’antidoto all’idolatria: la mano tesa di Dio in Gesù Cristo
Detto questo e individuato il problema, come uscirne? Quale è l’antidoto sul quale reimpostare la nostra esistenza cristiana?
Non è il miracolo! Lo abbiamo detto e lo descriviamo nuovamente. Nel brano evangelico Pietro, con la sua tipica irruenza, chiede il miracoloso: andare verso il Signore, camminando sulle acque è una bellissima richiesta. Ma camminare sulle acque è una pretesa infantile, perché è figlia di un prodigio fine a se stesso; è solo un’esibizione di forza che non ha di mira il bene di nessuno. E infatti il miracolo non va a buon fine. I miracoli non servono ad aumentare la fede. I miracoli si impongono e non convertono, come mostra Pietro stesso: fa passi di miracolo sull’acqua… eppure, proprio nel momento in cui sperimenta la vertigine del prodigio sotto i suoi piedi, in quel preciso momento, la sua fede va in crisi: Signore affondo! Al contrario, quando Pietro guarda al Signore e alla sua parola, può camminare sul mare. Invece, quando guarda a se stesso, alle difficoltà, alle onde, alle crisi, si blocca nel dubbio. Così accade da sempre. Se noi guardiamo al Signore e alla sua Parola, se abbiamo occhi che puntano in alto, se mettiamo in primo piano progetti buoni, se ci lasciamo prendere dalla fede, dalla fiducia totale in Lui, noi avanziamo. Se, invece, la paura dà ordini che mortificano la vita, i progetti sfumano. Pietro, oggi, ci è maestro per questo suo intrecciare fede e dubbio; per questo suo oscillare fra miracoli e abissi. Pietro, dentro il miracolo, dubita: Signore affondo; ma, dentro il dubitare, crede: Signore, salvami! Ecco l’antidoto! Affidarsi e lasciarsi prendere da questo dono immenso di Dio che è la fede, rappresentata non dall’indice puntato di Dio, ma dalla sua mano tesa per riemergere. Non dal giudizio incombente di Dio, ma dalla sua infinita misericordia. Non dall’autocompiacimento nelle proprie presunte forze o sicurezze, ma dall’amore senza riserve e senza ricatti di Dio.

4.     Mostrare la fede concretamente in due azioni da compiere
Scendiamo allora nel concreto, riprendendo in mano la pastorale di mons. Brambilla, in particolare la sua terza parte dedicata alla “fede per cui viviamo”, nella quel il nostro vescovo rilevava il rischio di una fede cristiana irrilevante, perché essa non incideva più sulla vita sociale, sul proprio corpo, sulla vita quotidiana, sulla dimensione etica delle scelte per la vita e dell’impegno per la costruzione della città. Egli indicava diversi luoghi della vita quotidiana per riportare la fede al centro. Oggi ne ricordo solo due.
A.   La capacità di crescere
Il primo luogo è dedicato ai giovani. La giovinezza è il luogo dell’avventura del crescere e si scompone in due problemi «degli adulti che devono trasmettere alle nuove generazioni non solo il saper fare ma anche il saper vivere, avendo una visione “agonistica” della vita, che è l’unico modo per ritrovare veramente se stessi, per darsi un volto». Agli adulti il nostro vescovo chiedeva il coraggio di trasmettere, perciò, «la sapienza di vita che, in forme nuove, perché ogni generazione, che poi porterà il suo contributo, impara la realtà, la fedeltà alla parola data, la capacità di relazione, il servizio al mondo, il dedicare un tempo certo della propria vita per gli altri, il senso civile, la partecipazione alla città dell’uomo. Questo va trasmesso accanto alle migliaia di “app” dei telefonini, sapendo che di questo elenco di cose non si trova nessuna “application” per l’iPhone o per gli Android!». Infatti, più che una generazione incredula, per mons. Brambilla, questa è «la prima generazione che ha un grosso problema a costruire la propria identità. Per questo ha bisogno di trovare chi faccia comprendere che, per costruire la propria identità, è necessario scegliere. Più che una generazione incredula è una generazione dell’abbondanza, con tante possibilità di mezzi e di tempo. Ma l’allungamento del tempo rimanda il problema dell’identità, aggravato anche dal fenomeno sociale della difficoltà all’accesso al lavoro. In questo senso radicale, se la fede serve a costruire una identità precisa, questa è la prima generazione incredula, ma leggendovi la forte difficoltà a costruire la propria identità. I giovani si innamorano di persone che danno loro fiducia e li portano dentro esperienze che fanno crescere. Perché crescere significa diventare responsabili: rispondono della vita e, rispondendone, diventano se stessi, acquistano un volto e un nome, il nome della loro scelta».
B.    La centralità del Giorno del Signore
Il secondo luogo è la centralità del Giorno del Signore, il Dies dominicus, la domenica con l’Eucarestia e la festa al posto del tempo libero spesso banalizzato e omologante. Quanto ci è costato in questo tempo di pandemia sperimentare ben tre mesi di assenza di culto pubblico: la domenica, l’intera quaresima, il Sacro Triduo, l’intero tempo pasquale. Quante voci si sono levate per riabbeverarsi alla sorgente! Ma quante, ora, sembrano aver già dimenticato quell’arsura, rigettatesi come sono nel vortice del tempo libero, senza più alcun rispetto né per stessi né per gli altri. E questo riguarda tutti: dai giovani, agli adulti, agli anziani…
Il nostro vescovo affrontava già allora, uno dei primi in Italia, che la festa, in particolare la domenica, era il gesto centrale della comunità cristiana. (2) «Sono convinto che forse è l’ultimo baluardo che resta per dare un volto concreto alla fede cristiana. …La domenica non può essere barattata con niente altro, pena il decadimento di tutta la vita civile a una società funzionalizzata e individualistica». La domenica è il giorno del Signore. «Per questo vorrei richiamare al recupero del senso della festa da vivere con sapienza lungo l’anno liturgico. Soprattutto vorrei richiamare alla messa domenicale». Vi è poi la più volte esplicitata questione dei centri commerciali, affollati luoghi anonimi in cui molti vivono la domenica. «Il tema della festa non ha solo un valore confessionale, ma ha anche una rilevanza decisiva per la vita personale e sociale. E con franchezza ho detto della mia preoccupazione per l’apertura indiscriminata di punti vendita. “Domenica “sempre” aperto”: il problema è il sempre: non sono contrario alle domeniche prima di Natale, il problema è il sempre e se è un servizio essenziale. Vi nascono riti omologanti, mentre quelli della festa sono riti identitari. Se noi non vogliamo perdere la nostra identità, dobbiamo recuperare il senso della festa».

5.     Insieme col Signore e tra noi
Mi accorgo di aver scritto troppo … Concludo ancora con un monito che mons. Brambilla ci aveva già dato: «Quello che chiedo alla Chiesa è la chiarezza della direzione. Io sogno una Chiesa che cammini insieme, che costruisca insieme la chiarezza della direzione e abbia la pazienza di arrivare un giorno dopo, ma non tanti gironi dopo, con una persona in più».
Buona domenica!
Vostro padre Marco

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(1) I virgolettati sono ripresi da A. Maio, “Come stai con la tua fede? Io credo in te per noi”. Intervista di mons. F .G. Brambilla ai Settimanali Diocesani (28-09-2012)

(2) Si veda F. G. Brambilla, La famiglia: il lavoro e la festa. Presentazione del Congresso internazionale teologico pastorale (29-05-2012)