«Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio». Lettera per il Natale 2017

 

Cari Amici,

Il bambinello donato alla nostra comunità

«Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio». Sono queste le parole del profeta Isaia che mi sono venute in mente lo scorso 16 ottobre, quando, tornando a casa, mi sono ritrovato per le mani un antico Gesù infante, che è stato collocato in mezzo alla chiesa, davanti all’altare, come il segno di questo Natale 2017. Era stato collocato davanti alla statua delle Vergine ed era stato donato anonimamente a questa parrocchia. Il fatto mi è parso insolito ma nello stesso tempo singolare per due ragioni. La prima per il giorno e l’ora nel quale è stato posto in chiesa; ma questo non l’ho notato subito. Il secondo motivo è costituito invece dal significato del dono con ciò che in se stesso si rappresenta e che ho riassunto nelle parole del profeta Isaia.

Parto dal primo motivo che mi consente una prima riflessione per questo Natale 2017, il secondo tra voi.

Il giorno e le ore in cui il bambinello è stato portato – così ha documentato la telecamera interna alla chiesa – era il 16 ottobre: 39 anni prima veniva eletto Karol Wojtyla quale Vescovo di Roma. È il stato papa che ha dominato larga parte della vita di noi tutti. Un lunghissimo pontificato, ricchissimo di segni e di significati non solo per l’intera Chiesa cattolica ma il mondo intero. Lo abbiamo potuto constatare tutti il giorno della sua morte. Il mondo intero si inchinato davanti a quest’uomo, santo, che si è speso con la sua vita perché la vera Vita, quella «che è nel seno del Padre» (Gv 1,18), fosse rivelata «per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte» (Lc 1,79). San Giovanni Paolo II ha scritto nuove pagine di vita. Ma, a riguardo del dono del bambinello, una in particolare mi è venuta alla mente: l’Evangelium Vitae, l’evangelo della vita, una lettera enciclica pubblicata nel 1995.

La natività del presepe parrocchiale 2017

L’Evangelium Vitae, che vi prego di riprendere in un testo commentato – ce ne sono tanti -, è la visione cristiana dell’essere umano, della sua dignità e, soprattutto, della sua libertà. Sì, della libertà dell’uomo che è inscindibilmente connessa al dono della vita. San Giovanni Paolo II ha raccolto, ribadendoli con l’autorità papale, la condanna ad ogni forma di manipolazione e soppressione della vita. Anche nello scenario attuale, in cui le biotecnologie sono avanzate in maniera impensabile, le affermazioni fatte allora dall’enciclica rimangono un punto fermo nella dottrina della Chiesa. Tra l’altro, nella lettera enciclica, si dice testualmente che ogni atto che riguarda la vita umana non è mai un fattore personale, ma ha sempre ricadute sociali, legate cioè al concetto di libertà, perché «rivendicare il diritto all’aborto, all’infanticidio, all’eutanasia e riconoscerlo legalmente equivale ad attribuire alla libertà umana un significato perverso e iniquo, quello di un potere assoluto sugli altri e contro gli altri».

Anche papa Francesco richiama tutto questo nella sua enciclica Laudato si.

Il presepe tradizionale in parrocchia

In particolare, l’essere umano – nota Bergoglio – ha oggi un’attività ipertrofica, in cui vuole dominare sulle logiche del creato e della natura, senza più conoscere il limite della libertà personale. La libertà umana va pensata nel quadro più grande della sapienza del Creato. E, quindi, essa in un certo senso ne resta rimpicciolita, ridimensionata, riproporzionata. Questa è la prima cosa, sulla quale vi invito a riflettere e sulle conseguenze che vediamo purtroppo materializzarsi continuamente nelle nostre culture occidentali, dominate da un uomo invasato, che disprezza continuamente la Signoria di Dio. “La liberà di ciascuno infatti, non finisce – come recita un noto proverbio – dove comincia quella dell’altro”; ma, al contrario – “incomincia là dove comincia quella dell’altro”. Proprio così. L’uomo non può per sua natura che pensarsi in relazione con gli altri. Non è individuo appartato, ma persona in relazione. Ecco, dunque, il significato primo del dono in se stesso: accoglienza della vita, perché «Un bambino è nato per noi». Guardate alle sue braccia levate, chiedono accoglienza con ciò che in esso vi ho significato.

Ma se «un bambino è nato per noi», il profeta Isaia dice che «ci è stato dato un figlio», che, «a quanti lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio», (Gv 1,12). Questa è la seconda cosa che mi è venuta al guardarlo: fare continuamente l’esperienza concreta e non teorica dell’essere “figli”. Infatti, se “Padre” è il nome di Dio, quello di “figlio” è il nostro nome proprio. Un nome che, come ha sottolineato spesso il nostro vescovo Franco Giulio in tanti suoi interventi, ci appartiene per sempre. Di più. “Figlio” non è soltanto il nostro modo di vivere, ma è il modo giusto col quale stare davanti a Dio, perché così fa Gesù. Cosicché l’essere figli non ci offre soltanto l’alfabeto per apprendere il linguaggio delle nostre relazioni umane, ma ci dona addirittura l’alfabeto per parlare con Dio quale effettivo «Padre nostro»! Se prendessimo sul serio questa nostra condizione di “essere figli”, diventeremmo meno autosufficienti, meno boriosi, più disponibili, più umili. Sapersi “figli” vuol dire così non dimenticare mai che qualcun altro ci ha permesso di vivere, di sopravvivere, di diventare umani. In questo ci aiutano ancora le parole dell’annuncio del Natale: «Lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio», si dice riguardo a Gesù. Anche per noi non ci sarebbe stato posto nel mondo senza l’allattamento della mamma, senza l’essere stati presi fra le braccia dal papà, senza le cure e le attenzioni dei nostri genitori.

Concludo con un augurio che diventa un impegno.

Il presepe fatto dai bimbi della nostra Scuola Materna con al centro il tabernacolo

Non basta una nascita umana con i gesti che l’accompagnano. Ne occorre anche una più profonda. Una ri-nascita vera e propria. Le parole dell’annuncio del Natale ci ricordano che Maria Santissima «Diede alla luce il suo figlio primogenito». Ci sono donate ben due nascite del Figlio di Dio: quella da Maria, secondo la carne, che noi commemoriamo con la festa del Natale; ma pure quella che avviene da ciascuno di noi, quando, guardando a Maria come figura corporativa quale Chiesa, – ve l’ho richiamato nell’omelia dell’Immacolata – accogliamo la parola del Signore e la mettiamo in pratica, come dice Gesù stesso: «Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8, 21). Queste due nascite sono inseparabili per noi. Non potremmo davvero celebrare la prima se non facessimo vera nella nostra vita anche la seconda. È proprio così, difatti, che noi diventiamo simili a Maria, come canta Dante nel XXXIII canto del Paradiso: Ella è sì la «Vergine Madre», ma pure è «figlia del suo figlio», che «umile e alta più che creatura», diviene perciò «termine fisso d’etterno consiglio» (DANTE, Paradiso, XXXIII, 1-3). Sta in queste due cose la perfezione della vita cristiana: ascoltare la parola di Dio e metterla in pratica. Se l’ascoltiamo soltanto, siamo simili al terreno infecondo, di cui parla Gesù in una sua parabola (cf. Lc 8,1-15). Se invece la mettiamo in pratica, diamo fioritura alla nostra vita e non soltanto. Diventiamo, perciò, inviati-apostoli del Vangelo della Vita, perché, come ci ricorda sant’Agostino, «si creda in Cristo, si speri in Cristo, si ami Cristo» (AGOSTINO, Contra epist. Parmen. II, 18, 37).

Per questo «Un bambino è nato per noi».

Per questo soprattutto «ci è stato dato un figlio».

Buon Natale!

padre Marco