Un Natale di Pace. Messaggio di Natale 2022 del nostro vescovo Franco Giulio

Mai come quest’anno sentiamo che il Natale può essere solo un Natale di Pace. La settima delle Beatitudini del Vangelo proclama: «Beati gli artefici di pace, perché essi saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). Il Talmud, un testo della tradizione giudaica, afferma che «la pace è per il mondo quello che il lievito è per la pasta». L’evangelista definisce la pace l’opera svolta dagli eironopoioí, gli artefici, gli operatori, i costruttori dell’eiréne. È curioso notare che il termine eironopoioí, usato da Matteo nella settima beatitudine, risuona solo una volta in tutto il Nuovo Testamento, mentre il vocabolo eiréne appare ben 99 volte, così come il famoso equivalente ebraico shalôm echeggia 245 volte nell’Antico Testamento.  Ho trovato una bella descrizione dello shalôm biblico nell’ultimo contributo del Cardinale Ravasi su Luoghi dell’infinito [G. Ravasi, Tanti modi per dire “shalôm”, in Luoghi dell’Infinito 278, dicembre, 2022, p. 8-14.] che illustra il duplice aspetto dello shalôm come “dono divino” e “opera umana. Ne riprendo gli elementi essenziali per formulare il nostro augurio natalizio.

La pace “dono di Dio”

Il credente dovrebbe essere come un albero della pace. Sentite cosa dice san Paolo ai cristiani di Roma, «il Regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17). Per l’antica tradizione giudaica erano tre le vie che conducono al Regno di Dio: «Onorare il padre e la madre, praticare la misericordia e riportare la pace tra un uomo e il suo prossimo» (Mishnah, Pe’a 1,1). La storia umana è segnata spesso da guerre e di violenze e la Bibbia è attraversata dal racconto di molte battaglie e ingiustizie: almeno seicento passi evocano guerre e uccisioni e oltre mille descrivono l’ira divina che giudica il male perpetrato dall’umanità. Eppure il progetto di Dio, descritto nel capitolo 2 della Genesi, comprendeva una perfetta armonia dell’uomo con Dio, con la natura e col proprio simile (la donna). E la mèta verso cui tende la storia è, per la Bibbia, la pace messianica. La concezione biblica dello shalôm (in arabo sal?m) è poliedrica. La pace biblica comprende non solo l’assenza della guerra ma anche benessere, prosperità, giustizia, gioia, pienezza di vita. Come dice il Salmo 85, «giustizia e pace si baceranno» (v. 11). Baruch Spinoza, filosofo ebreo olandese del ’600, nel suo Trattato teologico-politico (1670) affermava che «la pace non è assenza di guerra soltanto, è una virtù, uno stato d’animo che dispone alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia».
Abbiamo ascoltato la proclamazione degli angeli a Natale: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2,14). Terra e cielo sono uniti in un’armonia d’amore, come aveva annunziato Isaia nell’inno in cui il mondo animale si sarebbe rappacificato con l’arrivo del re messianico (11,6-8). Il nome simbolico di Dio e del Messia è proprio “pace”, per cui lo shalôm è per eccellenza dono divino. La pace si effonde su tutta la vita umana, a partire dai destinatari di un’altra beatitudine evangelica, i sofferenti: «A quanti sono afflitti io pongo sulle loro labbra: Pace! Pace ai lontani e ai vicini!» (Is 57,18-19). La libertà umana ha infranto questo disegno di armonia tra lo Dio e l’umanità, tra l’uomo e la donna, tra le creature umane e il mondo.
Il Nuovo Testamento vede instaurarsi la pace nel Regno di Dio annunciato da Gesù. Per questo san Paolo usa le definizioni «Dio della pace» (1Ts 5,23), «Signore della pace» (2Ts 3,16), e parla della «pace di Dio» (Fil 4,7) e adotta la formula «pace di Cristo» (Col 3,15), evoca la «via della pace» (Rm 3,17), proclama il «vangelo della pace» (Ef 6,15) e rivolge ai cristiani questo augurio: «La pace di Cristo regni sovrana nei vostri cuori» (Col 3,15).
La missione di Cristo è quella di «riconciliare in sé tutte le cose, edificando la pace con il sangue della sua croce» (Col 1,20). È dunque dalla Pasqua che si effonde sull’intera umanità e su tutto il creato la pace divina. Il frutto dello Spirito del Cristo risorto è amore, gioia, pace perché «le aspirazioni dello Spirito sono vita e pace» (Rm 8,6). In tal modo la Chiesa diventa segno di unità e di pace tra i popoli, come appare nell’evento di Pentecoste che supera la divisione di Babele mettendo in comunicazione tutte le lingue e le culture (At 2). La mèta ultima della storia umana si compirà quando, come dice il libro dell’Apocalisse, «una moltitudine immensa di ogni nazione, razza, popolo e lingua» intonerà all’unisono l’inno della salvezza (Ap 7).

La pace opera degli uomini

Nel testo forse più celebre di Isaia del capitolo 2, il profeta proclama la sua visione della pace escatologica: «Spezzeranno le loro spade per farne aratri, trasformeranno le loro lance in falci. Una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra» (Is2,4). È un inno che delinea un movimento planetario: da ogni angolo della terra si mettono in moto i popoli che convergono verso un monte. Non è il monte più alto né il più famoso, eppure esso è come un faro di luce che irradia i suoi bagliori sulla distesa dei continenti. La teoria dei popoli giunge ai piedi del monte Sion, e dalla sua vetta esce la Parola di Dio che va incontro all’umanità in ricerca. Di fronte a questa Parola le genti che sono accorse lasciano cadere a terra spade e lance che hanno recato con sé per difendersi dagli altri popoli stranieri. Gli artigiani prendono quelle armi e le forgiano in aratri e falci, ossia in strumenti di sviluppo pacifico. Si chiudono gli arsenali di guerra e si aprono centri di ricerca per il bene dell’umanità; le pianure non sono più campi di battaglia, ma terreni coltivati, agli armamenti subentrano gli armenti. È una scena che in tutta la storia della tradizione cristiana ha messo davanti agli occhi il senso escatologico della pace che da dono di Dio deve diventare opera degli uomini costruttori di pace, eironopoioí, gli artefici della pace.
Certo si tratta di una mèta della speranza escatologica, di un fine ultimo della vicenda umana, ma già da ora si deve cominciare a costruire questo ordine di serenità, di collaborazione, di sviluppo. In prima fila dovrebbero essere proprio i cristiani e tutti gli uomini amati dal Signore. La processione dei popoli che sale al monte Sion è la descrizione di una nuova mappa universale di armonia e di pace. Senza ingenuità bisogna che i costruttori di pace prevalgano sui fabbricanti di armi: quest’anno abbiamo giustamente difeso la terra e la libertà dei nostri fratelli Ucraini dall’invasore, il prossimo anno dovremo aiutarli a cercare vie di pace.
Per fare questo è necessario ascoltare il messaggio cristiano sulla pace. Come dice con voce cristallina san Paolo: «Cristo è la nostra pace: egli dei due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’odio, per mezzo della sua carne» (Ef 2,14). Per comprendere il testo bisogna ricardare una scoperta. Nel 1871 nell’area del tempio di Gerusalemme è venuta alla luce una targa di marmo, che ora è conservata presso il Museo dell’Antico Oriente di Istanbul. In essa si minacciava la pena di morte ai pagani che avessero varcato il muro che separava il “cortile dei Gentili”, ossia dei non Ebrei, dal “cortile degli Israeliti”, ove erano ammessi solo i membri del popolo dell’alleanza. Quell’iscrizione, che era in greco, la lingua allora più diffusa, suonava così: «Nessun gentile oltrepassi la balaustra di recinzione del tempio. Chi vi fosse sorpreso, sarà causa a sé stesso della morte che ne seguirà».
L’apostolo Paolo, riferendosi proprio al tempio eretto da Erode e frequentato da lui e dallo stesso Gesù, pensa a un atto simbolico operato da Cristo con la sua predicazione e la sua morte e resurrezione: egli abbatte quel muro divisorio e fa abbracciare i due popoli, ebrei e pagani, in Cristo Signore «chiamati a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo ed essere destinatari della promessa» (Ef 3,6). Il muro di odio che si interponeva tra due mondi diversi è spazzato via da Cristo che è definito in modo suggestivo «la nostra pace». Una lezione che il cristiano di oggi deve raccogliere, soprattutto quando affiora la tentazione di erigere muri di separazione nei confronti degli stranieri e dei diversi, dei vicini e dei lontani.
La guerra, che insanguina costantemente la storia a partire dal gesto fratricida di Caino, e che rimbomba ancor oggi nel cuore della nostra Europa, ha bisogno di costruttori di pace, che comincino dalla famiglia, dalla scuola, dalla città, dalle associazioni e dal volontariato a costruire relazioni di conoscenza, di prossimità e di pace. Dante nella sua opera latina Monarchia affermava: «È chiaro che la pace universale è la migliore tra le cose che concorrono alla nostra felicità» (I,4). Forse il motto latino dell’Eneide di Virgilio, il poema che ha nel suo centro una guerra, può essere il grido più alto da affiancare all’espressione di san Paolo sulla pace. Dice Virgilio: Nulla salus bello, pacem te poscimus omnes (XI, 362), nessuna salvezza e nessun bene può provenire dalla guerra, ed è per questo che tutti cerchiamo appassionatamente la pace.  Per questo il cristiano, figlio del Dio della pace, deve accogliere il dono di Cristo: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27).
Lascio l’ultima parola a Madre Teresa di Calcutta. La sua era una voce flebile, eppure è risuonata fin sotto le volte della sala del Premio Nobel per la pace. Ecco i suoi «cinque chicchi di riso» che sfamano lo spirito della pace:

  Il frutto del silenzio è la preghiera.
  Il frutto della preghiera è la fede.
  Il frutto della fede è l’amore.
  Il frutto dell’amore è il sacrificio di sé.
  Il frutto del sacrificio di sé è la pace

+ Franco Giulio Brambilla

Vescovo di Novara