Il ruolo del padre nella figura di Giuseppe. Omelia per la messa vespertina della vigilia di Natale

Miei cari,
questa prima liturgia di Natale, che si celebra nell’ora vespertina della vigilia, concentra tutta la sua attenzione sulla figura di Giuseppe, il padre putativo di Gesù. Sovente quest’uomo è stato relegato ad una figura di secondo piano nella famiglia di Nazareth. Al contrario, l’evangelista Matteo (Mt 1,1-25) ne sottolinea l’importanza e il rilievo per la stessa vita di umana del Figlio dell’Altissimo, tanto che papa Francesco ha dedicato a lui questo anno con una Lettera Apostolica, intitolata Patris Corde, per rimarcarne la figura. Concentriamoci su due elementi fondamentali, che spiccano nel passo evangelico che si proclama al calar della sera del 24 dicembre. Il primo è la grande cornice storica della genealogia del popolo a cui appartiene Gesù (Mt 1,1-17). Il secondo è l’evento famigliare della nascita del Messia, nella quale l’evangelista Matteo pone in luce la figura di Giuseppe, con l’Annunciazione che riceve dall’Angelo in sogno (Mt 1,17-25).

La grande cornice storica della genealogia del popolo eletto
Non va tralasciata mai la lettura della lunga genealogia che precede la nascita del Messia, nonostante la sua lunghezza. Essa, infatti, ha il duplice scopo di sottolineare l’evidenza storica della nascita del Salvatore in un preciso contesto, quello del popolo di Israele, e, poi, di ricordarne l’ascenda davidica, la stirpe regale da cui germoglia il Messia, tanto che l’evangelista lo sottolinea efficacemente nel suo esordio con queste parole: «Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1).
Gesù è, anzitutto e veramente, il discendente di Davide, in quanto riceve da Giuseppe il cognome e la casata. Sebbene fosse un umile carpentiere, Giuseppe era un discendente del grande re d’Israele, sovrano a cui era stata profetizzata la discendenza messianica, come le parole del salmo 88, che si proclama in questa messa, cantano: «Ho stretto un’alleanza con il mio eletto, ho giurato a Davide, mio servo. Stabilirò per sempre la tua discendenza, di generazione in generazione edificherò il tuo trono» (Sl 89,5). Ma l’evangelista Matteo non tralascia un secondo nome, quello di Abramo, dal quale ha origine la progenie davidica. Abramo è, infatti, il padre nella fede, realizzando così le promesse fatte a questi da Dio, come si evince nel libro della Genesi: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle; e soggiunse: Tale sarà la tua discendenza. Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia» (Gn 15, 5-6). Infine, c’è poi un terzo elemento in questa genealogia da non trascurare. Tutti i personaggi elencati che, forse a nostri orecchi suonano sconosciuti, celano dietro di sé una storia personale non sempre immacolata; anzi, a volte segnata ed oscurata dal peccato! Ma ciò non distoglie Dio dal realizzare quanto ha promesso. Al contrario, emerge in tal senso la Sua Misericordia, che più grande di qualsiasi peccato possano aver commesso, tanto che il profeta Isaia canta nella prima lettura di questa sera, con riferimento a questa genealogia e a questo popolo: «Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo» (Is 62,4).
Ciò che per noi è importante da questi tre primi elementi della cornice è che Dio non solo non dimentica di noi, lasciandoci nelle mani dei prepotenti di turno, ma che la sua infinita misericordia «si estende di generazione in generazione» (Lc 1,50) ed è sempre più grande di qualsiasi nostro peccato, poiché «laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5,20). Infatti, Dio non vuole punire l’uomo, ma desidera salvarlo. Per questo, «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3,16-17). Cosicché, come scriveva un grande padre della Chiesa, Ireneo di Lione, «la gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo consiste nella visione di Dio» (Ireneo di Lione, Contro le eresie, 4,20,5-7)

Il quadro domestico e famigliare di Nazareth
C’è però un secondo particolare su cui volgere la nostra attenzione che riguarda più da vicino la figura di Giuseppe, che come Gesù, è «figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1).
L’evangelista Matteo, a differenza di Luca, ne mette in luce un primo aspetto nel quadro dell’annunciazione dell’angelo, che lui riceve a fronte all’inaspettata gravidanza di Maria. Giuseppe, uomo giusto, è profondamente turbato dal fatto; conosce bene Maria, sua promessa sposa; ne ha sperimentato la rettitudine e non sa spiegarne la gravidanza. È arrovellato dal dubbio di questo evento inaspettato. Non è stato affatto semplice per un giovane come lui: avrà avuto si è non più di vent’anni, poiché quella era l’età limite per sposarsi, nonostante le raffigurazioni lo ritraggano, spesso, come un vegliardo, quasi “un nonno più che un padre”, quasi a tutela della verginità di Maria. Anche lui è vergine; ama Maria profondamente, perché è suo promesso sposo; sa che il figlio che Maria porta in grembo non è suo ma è altrettanto sicuro che Maria non può averlo ingannato. Da uomo giusto conosce altrettanto bene le leggi giuste che prevedono la lapidazione per coloro che infrangono il patto nuziale. Sono disposizioni legali. Eppure, lui, giusto, non se la sente di lasciarla in mano alla furia della folla e da uomo giusto, infrange addirittura la legge e cerca un escamotage, come narra l’evangelista: «Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto» (Mt 1,19). A questo punto irrompe Dio, mediante il suo angelo, che rivela a Giuseppe quanto sta avvenendo in Maria: «ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti, il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20). Giuseppe farà quanto dice l’angelo, senza dire alcuna parola. Crede, da uomo giusto quale è, e porta a compimento come Maria il progetto di Dio.
C’è però un secondo elemento che l’annunciazione dell’angelo rivela a Giuseppe: «tu lo chiamerai Gesù». In questa semplice frase è racchiuso, per Giuseppe e per ogni padre, il compito fondamentale a cui deve attendere: dare il nome al figlio, cioè riconoscerlo come esistente, accoglierlo e farlo crescere. Gesù sarà conosciuto, infatti, come il figlio di Giuseppe di Nazareth; di Giuseppe, «figlio di Davide», cioè discendente del grande sovrano, nelle cui vene scorre lo stesso sangue regale e che realizza le antiche profezie; di Giuseppe, «figlio di Abramo», erede perciò della moltitudine immensa a cui sarà donata la salvezza di Dio. Ecco dunque il compito grande di quest’uomo di Nazareth. Se le madri generano i figli, portandoli in grembo, i padri hanno il compito di riconoscerli e accoglierli. Se con le madri i figli hanno un rapporto simbiotico, che cresce di giorno in giorno naturalmente dal primo istante del concepimento, i padri, al contrario, riconoscendoli al loro venire alla luce, li accolgono, entrando in sintonia con loro nel corso del tempo seguente la nascita. I figli sono in interdipendenza con le madri nel grembo, ma i figli si consegnano ai padri come primo atto fiducioso nella vita, distaccandosi positivamente dalla madre, se avvertono nei padri un’approvazione, un’accoglienza e una premura effettive seppur differente da quelle fino ad allora sperimentate. Così il loro primo percorso di vita sarà segnato positivamente da una apertura agli altri; diversamente sarà un cammino molto più accidentato. Coloro che sono padri conoscono profondamente questa dinamica. Anche per Gesù è stato così: se il suo corpo è stato generato dalla Vergine, lo stesso corpo è stato, invece, nutrito da Giuseppe. Questa dinamica, appena abbozzata in questa riflessione, descrive ciò che di importante spetta a Giuseppe e a tutti i padri: crescere un figlio perché si senta sicuro e possa avanzare nel mondo che lo circonda. Questo consente a tutti i figli di “non balbettare” la vita, ma di imporsi in essa poco alla volta nella crescita. Per trent’anni, a quanto ci dato di sapere, Giuseppe ha svolto con Maria questo compito, silenzioso e paziente: crescere il figlio di Dio come suo e farlo diventare un adulto sicuro di se stesso. Così Gesù ha potuto riconoscere in Dio il Padre. Questo riconoscimento culmina nel battesimo al fiume Giordano, in quella grande teofania, quando dai Cieli che si aprono la voce dell’Onnipotente riconoscerà in quell’uomo il suo Figlio amato. Ma anche per noi è così: con buoni padri possiamo aprirci al Padre dei Cieli. In questo tempo segnato così dalla fragilità dei padri, dalla loro latitanza e dalla loro evanescenza, è quanto mai necessario ritrovare questa dimensione fondamentale nella famiglia. Lo dico a tutti padri, me compreso, in quanto padre di una comunità.

Introdurre i figli alla vita
Concludo con le parole di papa Francesco contenute nella lettera Patris corde: «Essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze. Forse per questo, accanto all’appellativo di padre, a Giuseppe la tradizione ha messo anche quello di “castissimo”. Non è un’indicazione meramente affettiva, ma la sintesi di un atteggiamento che esprime il contrario del possesso. La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita. Solo quando un amore è casto, è veramente amore. L’amore che vuole possedere, alla fine diventa sempre pericoloso, imprigiona, soffoca, rende infelici. Dio stesso ha amato l’uomo con amore casto, lasciandolo libero anche di sbagliare e di mettersi contro di Lui. La logica dell’amore è sempre una logica di libertà, e Giuseppe ha saputo amare in maniera straordinariamente libera. Non ha mai messo sé stesso al centro. Ha saputo decentrarsi, mettere al centro della sua vita Maria e Gesù» (Patris corde, 7).
Buon Natale!
Padre Marco