“Là dove i giovani sono: quale stile per un serio discernimento?”: la relazione di don Pozza

E’ disponibile on-line il testo della relazione, che don Marco Pozza, teologo, parroco del Carcere di Padova e giornalista, ha tenuto ai giovani lo scorso sabato 19 gennaio 2019 a Borgomanero durante l’Assemblea diocesana di pastorale giovanile.

Ecco il testo integrale:

Assemblea Diocesana di Pastorale Giovanile 

“Là dove i giovani sono. Quale stile per un serio discernimento?”

Don Marco Pozza

Borgomanero, 19 gennaio 2019

Premesse

Lo “stile”: il cristianesimo è uno stile, crea quindi fascinazione e non noia.

  • Chi è don Marco Pozza? Non posso parlarti se le mie parole non passano attraverso la mia storia. Attraverso la mia faccia vi racconterò che c’è una storia d’amore con Dio, una storia che ha dei lavori in corso con me. Il prete che vi parla è un peccatore. Parlo a titolo personale. Io non sono il portavoce di papa Francesco. Se certe cose vi sembrano fuori dalla logica di Dio è responsabilità mia. Io sono un prete peccatore che ad un certo punto ha ricevuto la grazia di essere stato perdonato. La mia piccola storia sta tremendamente a cuore a Dio e ho avuto la predilezione di avere incontrato Gesù. Io provengo da famiglia e da una terra profondamente leghiste e sono cresciuto con questa convinzione: quando uno sbaglia deve pagare e la misericordia è solo per alcuni. Un giorno per sbaglio sono scivolato in un carcere romano per sostituire un mio amico sacerdote e ho scoperto una grande cosa. Io non conoscevo i detenuti, ma solo la letteratura su di loro. Quella gente io la odiavo. Poi li ho conosciuti in modo diverso. Ora vivo da otto anni l’esperienza di essere parroco in un carcere, con degli uomini detenuti (una volta li avrei chiamati “bestie”). Qui ci sono ragazzi dai 20 e 30 anni e con loro sto vivendo, in un certo senso, l’esperienza di pastorale giovanile.
  • La prima volta in cui ho incontrato papa Francescoper registrare un pezzo del programma, gli ho fatto subito due domande. Ecco la prima: «Un conto è il mio lavoro personale con Dio e un conto è il lavoro, posso darti del “tu”?». «Tu inizi dandomi del “lei” – mi rispose papa Francesco -, io ti do del “tu”, tu poi mi parlerai dandomi del “tu”». Ecco la seconda domanda: «Ho con me una camicia da prete, l’ho comprata poco fa: devo ammettere che io non le uso, perché ho incontrato Dio “in borghese”. Devo indossarla per il programma?». «Tu rimani così, se la metti la gente penserebbe che ti sei s-naturato».

Io sono un prete peccatore al quale Dio è apparso in borghese con uno stile ben preciso, chiedendomi di dargli del “tu”, il pronome della conversazione e della relazione più intima. Non mi ha chiesto di s-naturarmi per entrare in relazione con lui.

  • Andrea nell’introdurre questa mattina di lavori insieme ha usato l’aggettivo “solita preghiera”. Sembra dispregiativo, ma in realtà è l’aggettivo più bello. “Solito” richiama alla mia memoria il testo di don Primo Mazzolari, Il compagno Cristo, in cui scrive: «Il Vangelo è sempre la solita cosa, ma siete voi che non siete sempre i soliti». Tu non sei quello di ieri, a volte basta un nulla per cambiarti la vita. «Se voi foste sempre le solite persone, come sarebbero le cose? Immaginate di tornare una cosa e di aver perso tutto, ma in mano vi sono rimaste le solite cose. Se le buttaste via rimarrete con niente in mano». Io sono in carcere con persone che hanno perso tutto, ovvero la libertà.

Condivido con voi tre domande:

  • Io ho sempre frequentato ambienti lontani alla Chiesa. Invece di partecipare all’AC, scout, oratorio, ho frequentato il mondo dello sport e lì mi sono forgiato. Mi domando: Dove io posso interrogare la vita?
  • Trovato il luogo dove posso interrogare la vita, mi interrogo ancora: Dov’è il punto di ingresso in questa vita?Per entrare in casa ci sono tanti punti d’ingresso…
  • E poi, infine, mi domando ancora:Cosa centra Dio dentro questa vita?

Dove io posso interrogare la vita?

Vorrei partire da una storia di un giovane piemontese, proprio come voi.

Sono partito, quindi, dalla storia di un ragazzo che aveva 17 anni quando ha scritto la lettera che sto per leggervi. Ha scritto la lettera e poi si è gettato sotto un ponte. Si chiama Michele Ruffino. «Ti scrivo l’ultima lettera, credo che mollerò tutto fra poco. Credo di non avere la forza, nessuno me l’ha mai data e Dio non l’ho mai accettato…». Lascia un discorso di fine vita all’umanità impegnativo, un manifesto di Pastorale giovanile.

Di questa lettera mi hanno colpito, in particolare, tre parole:

*la carezza:«Nessuno che mi dica “Sei maledettamente bello”». Il primo ragazzo in carcere a cui ho dato una mano per salutarmi, se l’è messa in faccia da solo per farsi una carezza. Niente formalità, solo “tu”, sguardi e carezze.

**Lo sguardo:perdersi negli occhi.

***la felicità.

Dove posso interrogare la vita? Solo dentro ad una storia personale. Solo la mia faccia posso raccontarti, perché essa racconta la mia unicità.

Non c’è giorno dentro la mia storia in cui non mi veda diverso da quello ero e da quello che sarò. Ogni mattina devo trovare un motivo valido per dire “oggi sono prete perché…”. Devo personalizzare ogni giorno.

Nella vita non ci sono due postazioni per leggere la vita, quello dell’intelligenza e quello della fede. Dentro a questa vita qualcuno ha una storia con Dio. Questo significa attaccare sul cuore “lavori in corso”: io ho una storia d’amore con Dio. Le nostre storie d’amore con Dio funzionano come tutte le altre storie.

Papa Francesco parte da episodi della vita normale che ti lasciano il sospetto che i tuoi giorni che siano semplicemente uno dopo l’altro, sono la porta d’ingresso per l’incontro con Dio.

Il papa mi ha aiutato a ricomporre la mia storia frantumata. Quello che fa la differenza tra chi crede e chi non crede è non avere delle risposte geometriche alla vita. Io so di non essere solo, ho una storia con Dio. Anche io mi dispero certe volte, solo che la mia disperazione a differenza di chi non crede, so che avrà fine. Io ho sperimentato un fallimento: avevo legato i giovani a me e non a Dio. Andato via io, questa gente è andata via con me. Nel deserto, grazie a Dio, mi sono reso conto che l’esito non dipende dalla mia strategia pastorale, ma quello che conta è che Dio usa me. Io sono una matita nelle mani con Dio: Dio se non avesse una matita non potrebbe scrivere.

Dentro questa vita disastrata ad un certo punto mi sono sentito guardato. Io facevo schifo a me stesso e ad un certo punto ho incontrato un uomo che mi ha guardato nei miei occhi disperati e mi ha ascoltato. Lui sì che è un uomo che ha stile. «Di assoluto c’è Gesù Cristo, tutto il resto si sistema!», mi ha detto. Mi sono sentito guardato. Lo sguardo, anche con i ragazzi, è importante. Siamo costretti a guardarci negli occhi. Noi a volte elaboriamo strategie guardandoci nei nostri occhi per far nascere il fascino negli occhi di quelli che stanno fuori.

Papa Francesco è scomodo perché nell’Evangelii Gaudium scrive: «Raccomando di non dare mai risposte a domande che nessuno si pone». Non ci chiediamo mai prima: «Ma i ragazzi su cosa si stanno interrogando nella loro vita?». Michele Ruffino si stava facendo delle domande che gli altri non ascoltavano, erano impegnati a dare delle risposte a domande che lui non si stava ponendo. La vita possiamo interrogarla solo dentro ad una storia concreta, solo dall’interno, entrando nelle storie dei ragazzi.

Le esistenze con cui ho a che fare io sono ristrette, ma hanno lo stesso desiderio di felicità che hanno le vostre vite.

Quale è il punto di ingresso su questa vita?

Nella mia diocesi, grazie a Dio, la pastorale giovanile ha a cuore anche il carcere. Abbiamo aperto un gruppo giovanile anche lì.

L’immagine delle lucertole mi ha sempre incuriosito e mi fa pensare ai giovani. La pastorale io l’ho sempre sposata con il verbo “fare”. Noi dobbiamo aspettare accanto ai giovani e attendere che la loro vocazione prenda movimento. La lucertola aspetta accanto all’insetto da magiare in silenzio e poi scatta. Dobbiamo essere disposti a tutto. La nostra attesa, con pazienza, deve contenere la possibilità del più alto e del più basso destino.

Occorre riconoscere che il male crea esigenze. Riconoscete che i vostri giovani forse ci giocano con il male: il male crea fascino ed è un attimo cadere nelle sue trame.

Dobbiamo aspettare che la vocazione di ciascun ragazzo prenda corpo. E nel frattempo cosa possiamo fare? Prova ad immaginare come tu, nel gioco degli scacchi, puoi muovere le pedine dell’altro. Tu non puoi muovere le sue, ma puoi costringere l’altro a muovere le sue pedine muovendo le tue: le tue mosse prevedono e incidono sulle mosse dell’altro. Perché parlare di Gesù, se non ha cambiato la tua vita? Non dobbiamo dare per scontato che i giovano abbiano conosciuto Dio, non sempre è così.

Benedetto XVI nella Spe salvi, spiega che tante speranze si possono sperimentare, quando si realizzano si rende evidente quanto l’uomo abbia bisogno di una speranza capace di andare oltre, che lo mantenga in cammino. Senza la grande speranza, le piccole speranze non bastano. Questa è la ginnastica del desiderio. Gesù ha inventato una strategia pastorale pazzesca con la Samaritana.

Qual è il suo punto d’ingresso nella pastorale con la Samaritana? La quotidianità. Non sono cavolate le speranze che hanno i ragazzi: scommetteteci, perché sono importanti. Amate quello che i ragazzi amano, così loro ameranno quello che amate voi.

Il problema è vedere che se vuoi diventare…ci sono quelle strade lì…bene e male sono abiti su misura: Lucifero queste cose le sa bene. «Non è da come una persona ti parla di Dio che tu capisci che è innamorato di Dio, ma è nel modo in cui ti parla delle cose di quaggiù». Tanti giovani sono convinti che la vita sia una routine, una cosa dopo l’altro. Noi dobbiamo entrarci, accettare di essere insultati (Grazie a quello che ti è accaduto Dio ti ha incontrato). Qualcuno si spinge un po’ oltre: in carcere, un ragazzo detenuto, Jacopo, mi ha detto che “La mia conversione nasce forse dalle preghiere che il ragazzo che ho ucciso sta facendo per me”.

Avere il coraggio di pensare in grande, ma guardando nel piccolo. Sono i dettagli che fanno la differenza. Un dettaglio apre uno spiraglio.

Cosa centra Dio con tutto questo?

Dentro una storia concreta c’è qualcuno che ha una storia d’amore con Dio. Io sogno di morire da sacerdote e parlando con voi non posso circumnavigare la mia esistenza senza tenere conto della mia umanità. Io cerco ogni giorno di essere sacerdote.

Il cristianesimo non è sempre esistito, ma è iniziato ad esistere con Gesù Cristo. È iniziato quando Dio ha deciso di entrare dentro la storia, di sporcarsi le mani, di mischiarsi con gli uomini. Dio si interessa di me (E ti vengo a cercare, F. Battiato).

Dio ha bisogno di me per capire meglio chi è lui. Da una parte sempre più persone scrivono sul loro profilo “ateo” e dall’altra aumentano quelli che accendono lumini, preghiere. Ci sono ragazzi che pagano tanto per andare alla Giornata Mondiale della Gioventù a Panama e poi non li vediamo più. In alcuni posti la Pastorale giovanile si riduce all’organizzazione della GMG, ma dopo?

Questi sono ragazzi che oggi nella nostra Chiesa mancano, e mancano perché appartengono a tanti. Scompare anche l’uomo con i suoi perché. I ragazzi sono come le talpe: alla GMG tanti tirano fuori la testa come le talpe, si svegliano perché sono alla ricerca di qualcuno, di un volto che alcuni cercano di possederlo. Gesù dice “Liberami!”. I giovani ci chiedono di conoscere quello che noi crediamo di possedere. Perché tanti giovani dopo la Giornata mondiale della gioventù non si fanno più vedere? Perché lì, alla GMG, c’è posto per tutti, per chi crede e chi no. Questo non succede dentro le nostre comunità. In alcune parrocchie sembra di essere in una enclave sigillata.

Noi non rifiutiamo quello che il parroco ci dice, ma il modo in cui parla perché non lo capiamo. Dovrebbe parlare di qualcosa che ci faccia stupire, qualcosa che non sappiamo, che ci faccia dimenticare quello che vorrei dire al mio vicino e che sia più interessante delle marche dei miei giubbotti. Ci chiedono di smettere di raccontare Gesù come un minestrone riscaldato. I giovani non si sono stancati del monoteismo, ma della monotonia.

Il momento in cui ascoltare e fare incontrare le storie delle persone con il Vangelo è la domenica. Noi invece vorremmo evitare la vera presenza, l’incontro con il Vangelo. Le poesie vanno incontrate, così dovrebbe essere per il Vangelo, e la mia testimonianza ne è una spiegazione. Se Dio ce l’ha fatta con me, potrebbe farcela con te.

Come ho conosciuto Cristo? Io ho conosciuto Cristo quando ho visto quanto erano felici i miei nonni la domenica, quando tornavano dalla Messa e ho capito che volevo anche io quella stessa felicità. Scoprire quella felicità è stato per me la pastorale giovanile e il libro di teologia più efficace.

Se io sono abituato a comprare questa penna e un altro mi deve convincere che devo comprarne invece un’altra: per quale motivo devo abbandonare l’una per l’altra. Qual è il di più che una penna ha rispetto all’altra. K. Rahner dice “abbandonerei il cristianesimo se trovassi una proposta migliore a quella cristiana”. Qual è, dunque, il “di più” che attraverso la mia vita offro ai ragazzi perché loro si innamorino della mia proposta? Se non c’è una differenza rispetto a quello che propone il mondo, non li attiro, perché la proposta fuori è più bella.

Domande dall’assemblea:

  • Come fare ad attrarre i giovani non a sé ma a Dio? Qual è il limite per evitare l’autoreferenzialità ed essere vero dono per gli altri?
  • Come fare per portare fuori da nostri ambienti la proposta, anche sapendo che non sempre possiamo contare sull’alleanza con le famiglie nell’annuncio di fede?
  • Come restare testimoni credibili anche quando la fede vacilla?
  • Come concretizzare l’immagine dell’abito su misura nella proposta? Come rendere efficaci gli strumenti che abbiamo e ottimizzare le forze a disposizione?

Risposte di don Marco Pozza:

Cristo ha una credibilità concreta che non riesco a trovare in altre situazioni. I ragazzi non ci capiscono. Ci sono due tipi di preti: quelli con la coscienza a posto che dicono cose ovvie e fanno il loro dovere; quelli che partono dalle radici e non dicono le cose all’acqua di rose e rischiano, entrano nella storia e rendono evidente l’amore “fastidioso” di Dio.

Ci sono dei luoghi che sono delle periferie dove possiamo imparare cosa significa “misericordia”. Se il Vangelo lo lasci come è rimette in piedi le persone. La mia storia – e la mia storia con Dio – è credibile quando vacilla, quando è sul punto di sbagliare. La perfezione annoia, la gente di un prete perfettino non se ne fa nulla. Le mie imperfezioni rendono più incredibile la storia. I momenti in cui incido nella mia gente sono quelli in cui io non ce la faccio. Nella Messa Dio ci usa. Io non mi vergogno della mia storia, non dimentichiamoci che siamo peccatori.

La storia non la cancelli, ma la misericordia quando interviene crea un prima e un dopo, sono un peccatore ma Lui continua a darmi fiducia. Se Dio promette mantiene, se io prometto non sempre mantengo. Io non mi accorgevo che la gente si attaccava a me invece che a Cristo. L’ho capito che quando c’è la Messa c’è Cristo e io mi lasciavo abbagliare dalla notorietà di chi fa le veci di Cristo (di me). Deludere è fatica. Io Dio l’ho incontrato nella bellezza. Per attirare a Dio devo rendermi conto che io non sono Dio e se non faccio io una cosa, la fa un altro prete al posto mio. Non siamo indispensabili.

Io ho “massacrato” Papa Francesco quando è stato eletto. Non accettavo tutta l’attenzione per la misericordia e le telefonate…Nel 2015 si inventa il Giubileo della Misericordia, le porte delle celle diventano porte della misericordia…Io quell’anno non riuscivo a stare indietro alle confessioni. Piangevano e io non volevo assolvere. Io ho conosciuto la misericordia attraverso i poveri che odiavo. Ci sono persone che ti vedono senza guardarti. Facciamo fatica a guardare. La forma non è la formalità, ma dice qualcosa già del contenuto.

La pastorale giovanile ha bisogno di esploratori come Giosuè, come Annibale, capaci di aprire la strada. Vedono i rischi, pagano il prezzo per vedere il nuovo.

È possibile non sentirsi sconfitti dentro una sconfitta se incontri uno che la sconfitta l’ha vissuta e attraversata.