Passare con gioia alla Terra Promessa. Omelia per terza domenica di Avvento

Miei cari,
se domenica scorsa ci eravamo concentrati sull’ “inizio”, specificato da tre complementi “del Vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio”, “della Consolazione” e “della vita nuova nello Spirito”, declinati a loro volta “nella “storia del mondo”, “nella storia di un popolo”, “nella storia di ogni uomo”, in questa domenica, vogliamo comprendere fino in fondo il significato di questo “inizio” a partire dal Vangelo odierno di Giovanni (Gv 1,6-8.19-28), che ci accompagna quest’anno, in alternanza, con quello di Marco.

Il passaggio alla Terra Promessa
C’è un particolare, che potrebbe apparire insignificante, sulle prime, ma che non lo è. Esso è costituito da una nota geografica che riguarda il luogo dove Giovanni battezzava: «Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano» (Gv 1, 28). Con questo elemento l’evangelista Giovanni qualifica il Battista come il novello Giosuè, che per primo, portò il popolo eletto nella Terra promessa, attraversando il Giordano. Il Battista ha proprio questo compito: stare all’inizio di un nuovo capitolo della Storia della Salvezza, l’ultimo, il fondamentale e l’eterno, facendo da intermediario al Messia per accompagnare un intero popolo all’incontro con il Cristo, affinché non più solo Israele ma l’intera umanità entri nel Regno dei Cieli, che sarà annunziato da Gesù. Costui, in quanto Cristo, “passerà il Giordano”, ripetendo, in maniera definitiva la Pasqua (che significa appunto passaggio), l’uscita dalla morte alla vera  Vita, quella che non conosce più termine, entrando nella Terra Promessa, che altro non è che la vita nello Spirito.

L’arrivo dello sposo
Notiamo poi un secondo particolare. Alle domande incalzanti di coloro che giungevano da ogni parte per chiedere a Giovanni se fosse il Cristo, il Battista, rispondeva affermando di se stesso quello che già domenica scorsa abbiamo ascoltato e spiegato: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore» (Gv 1,23). Anzi, precisando che il significato del suo battesimo costituiva semplicemente l’accoglienza del Messia, che è già «in mezzo a voi», che «non conoscete» e al quale Giovanni non è neppure degno «di slegare il laccio del sandalo» (Gv 1,26-27). Proprio quest’ultimo gesto ha un significato profondo. Con esso si indicava, anticamente, la rinuncia del parente più prossimo al diritto o dovere del levirato (Dt 25,5-10), secondo il quale doveva sposare la vedova del fratello per dargli una discendenza; se rinunciava a questo diritto doveva togliersi il sandalo, segno della cessione ad altri del suo diritto di proprietà. Questo significato è sotteso nell’atteggiamento del Battista che, dichiarando di non poter togliere a Gesù il sandalo, affermava di non avere alcun diritto di prendersi la Sposa cioè, Israele e, quindi, la Chiesa perché solo «lo Sposo è colui al quale appartiene la Sposa» (Gv 3,9). Questo sposo è, appunto, il Cristo, nel quale dimora lo Spirito, l’unzione messianica.

L’opera dello Sposo
Che cosa compie «lo sposo» per Israele, popolo amato ed eletto da Dio, portando a compimento le promesse date ad Abramo e, quindi, alla sua discendenza? Lo dicono già esplicitamente le antiche profezie, che abbiamo riascoltato nella prima lettura proclamata in questa domenica e alle quali il vangelo di Giovanni, letto oggi, fa riferimento: «Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore» (Is 61,1-2). Il profeta Isaia ricorda che il Messia ha il compito di liberarare dalla schiavitù dal peccato, proclamando in se stesso l’«anno di misericordia». Che cosa significa questa espressione? Gesù stesso ha offerto il suo commento autentico a queste parole con la morte di croce: «Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce», come ricorda l’apostolo Pietro nella sua prima lettera (1 Pt 2, 24); ma pure l’apostolo delle Genti, Paolo scrivendo ai Galati, lo riafferma, completandolo: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno, perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede» (Gal 3, 13s). La misericordia di Cristo, dunque, non è stata una grazia a buon mercato, non ha banalizzato il male. Cristo porta nel suo corpo e sulla sua anima tutto il peso del male e tutta la sua forza distruttiva. Egli lo brucia e lo trasforma nella sofferenza e nel fuoco del suo amore. L’anno della misericordia coincide nel mistero pasquale, nel Cristo morto e risorto. Questa è stata la vendetta di Dio: Dio stesso, nella persona del Figlio, ha sofferto per noi e quanto più siamo toccati dalla misericordia del Signore, tanto più entriamo in solidarietà con la sua sofferenza e diveniamo disponibili a completare nella nostra carne «quello che manca ai patimenti di Cristo» (Col 1, 24).

La gioia di tutto il popolo
Torniamo ancora alle antiche profezie di Isaia, che esplodono poi nella gioia: «Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto con il mantello della giustizia, come uno sposo si mette il diadema e come una sposa si adorna di gioielli» (Is 61,10). Esse ci mostrano in questo canto l’inno di esultanza che prorompe in ogni credente a motivo della Salvezza donata dallo Sposo, il Cristo. Se domenica scorsa l’invito era quello di aprire nel nostro cuore la via al Signore, questa via, oggi, si rende visibile. Questa via è il Cristo, «la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9) e che fuga le tenebre del dubbio e dell’incertezza. Giovanni si pone solo all’inizio di questo cammino di resurrezione per noi «come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui» (Gv 1,7). Il mistero della Pasqua di morte e di resurrezione è anticipato già nel Natale e da esso promana. Ma questo processo pasquale e vitale deve compiersi anche in noi, lasciando il peccato e rivestendosi «delle vesti della salvezza» (Is 61,10). Infatti, proclama ancora l’evangelista: «A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1,12-13)

Cristo è la nostra gioia
Questa domenica, che stiamo celebrando, è, dunque, veramente la domenica della gioia, perché reca in se stessa il senso primo, ultimo e definitivo della nostra gioia. Nel Cristo che nasce ne cogliamo l’inizio, nel Cristo che risorge ne vediamo il compimento, nello Spirito che ci è donato, la capacità di vivere in questa prospettiva. Raccogliamo dunque questo invito alla gioia vera, nonostante questo tempo difficile ma non meno arduo di altri che lo hanno preceduto e che lo seguiranno. Gettiamoci nelle braccia di Dio, che il nostro unico e sommo bene, capace di donarci fin d’ora e per l’eternità la vera gioia. Facciamo, dunque, nostre le parole dell’apostolo Paolo, che nella seconda lettura di oggi, ci esorta: «Siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi. Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie» (1Ts 5,16-20).
Buona domenica!
Padre Marco