“Eccomi, manda me”. Tessitori di fraternità: l’intervento del nostro vescovo alla Veglia missionaria

Le testimonianze di suor Lilia Tozzini (rosminaiana di Borgomanero missionaria in Tanzania) e di don Cesare Baldi (sacerdote novarese di rientro dalla missione in Algeria), il madato missionario alla laica Elisa Perrini, che raggiungerà i nostri fidei donum in Ciad. Sono stati gli elementi centrali della serata dello scorso 17 ottobre a Villadossola, dove si è celebrata la veglia diocesana missionaria 2020, presieduta dal vescovo Franco Giulio Brambilla. Che ha lanciato un invito a tutte le comunità: «Credo che un Vangelo non testimoniato ed annunciato con la stessa grinta di suor Lilia e di don Cesare, non proclamato insieme e non annunciato come fonte di gioia, non sia il Vangelo di Gesù, ma sia ancora la nostra chiacchiera, che ha ancora bisogno di sciacquare i panni dentro la freschezza del Vangelo di Gesù. Perciò vi auguro che questa veglia missionaria, che avviene sempre all’inizio dell’anno pastorale, sia per noi come una sorta di colpo di acceleratore per la nostra vita».

Di seguito l’intervento integrale del nostro vescovo.

Un caro saluto a voi tutti che questa sera siete venuti, qui a Villadossola, alla Veglia missionaria, nonostante la situazione veda un nuovo incremento di casi a motivo della pandemia.
Tiriamo le fila delle suggestioni ricevute, attraverso i tre brani che abbiamo ascoltato del delizioso libretto di Giona, che è inserito nel canone biblico tra i libri profetici, quasi come fosse la sintesi dell’esperienza profetica, per quanto sia considerato un racconto parabolico.
In parallelo sono stati proclamati alcuni brani del capitolo 27 degli Atti degli Apostoli, la maggior parte dei quali sono sconosciuti ai molti. È il racconto del naufragio di Paolo, ricordato diverse volte nelle sue lettere: qui è invece narrato dal vivo, al penultimo capitolo del libro degli Atti, prima del ventottesimo, in cui Paolo approderà a Roma. Sono testi non molto noti, ma che hanno una loro bella vivacità.
Questi testi sono stati poi impreziositi dall’intervento frizzante di suor Lilia, e dall’intervento africano di don Cesare Baldi. Mentre riascoltavo i brevi brani di Giona e di Atti, e poi seguendo il commento di suor Lilia, mi veniva da dire che la suora rosminiana è l’“anti-Giona”! Giona riceve da Dio la missione e scappa, suor Lilia passa dalla Madre generale che la manda in Africa e ci va senza battere ciglio. Nel giro di vent’anni fa tutte le cose che abbiamo sentito raccontare, con molte altre virtù!
Un profeta tra umido e secco
La parabola del libro di Giona è molto importante per riflettere e ci consente di fare il nostro approfondimento questa sera. Intanto è giusto sottolineare che noi abbiamo letto solo una faccia della medaglia del libro di Giona; occorrerebbe girare poi la moneta e vedere l’altra faccia, quando poi finalmente Giona torna a Ninive. Uno degli ultimi commenti sul libro di Giona, scritto da un mio caro collega di Milano, è intitolato: “un profeta tra umido e secco” (R. Vignolo, Un profeta tra umido e secco, Sindrome e terapia del risentimento nel libro di Giona, Contemplatio, Glossa, Milano 2013). Stasera Giona ci è stato servito in umido, nel bel mezzo delle onde del mare! Poi Giona, nella seconda metà del libro, scoprirà a Ninive l’amore misericordioso di Dio, al di là della voglia del profeta di punire la gente della città pagana: «Per questo motivo mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore» (Gn 4,2). Allora Giona si ripara sotto un ricino, una pianta che allarga la sua ombra, ma viene un vento caldo che fa seccare il ricino. Il profeta si lamenta con Dio che il ricino si sia seccato. E Dio allora gli dice, con sorniona ironia: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per una pianta di ricino? … E io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere tra la mano destra e quella sinistra…» (Gn 4,9-10). Su questa domanda provocatoria termina la parabola di Giona.

Mi pare che il primo messaggio che possiamo raccogliere è proprio questo: Dio ci chiede di annunciare la misericordia di Dio di fronte alla città peccatrice, anche se all’inizio del libro di Giona si dice: “Alzati va a Ninive, la grande città e in essa proclama che la loro malvagità è salita fino a me!” (Gio 3,2). In effetti la predicazione del profeta, in prima battuta, è quella di annunciare il castigo di Dio di fronte al peccato dell’uomo! Sarebbe stata una predicazione facile per Giona. Anche oggi alcuni si presterebbero a far scendere il fuoco dal cielo! Però sappiamo che quando poi siamo di fronte al peccatore, lo vediamo in carne e ossa, sentiamo che non siamo mandati solo per giudicare o per condannare. L’annuncio di giudizio è una parte importante dell’annuncio profetico, ma è sempre e solo la penultima parola, perché l’ultima parola (e la prima) non può essere che l’annuncio della misericordia! Ma l’ultima parola non sta solo alla fine, ma precede, accompagna e segue ogni annuncio di castigo.

Qual è il rapporto tra il giudizio e la misericordia? È importante tentare di chiarirlo. Provo a spiegarlo immaginando un discorso diretto: “La parola di giudizio ti dice che se fai così, se tocchi ad esempio il fuoco, ti scotti! Il giudizio rivela che i tuoi gesti si riverberano sulla tua vita. Il profeta dice: ti devo mettere in guardia, perché se non cammini sulla strada dritta, prima o poi andrai nel fosso! Però ti posso minacciare questo castigo, perché Dio ti considera più grande dei tuoi gesti!” La misericordia dice che l’uomo e la donna certo sono feriti dai gesti (negativi) che fanno, ma la loro persona non si riduce alle azioni compiute. Le azioni positive costruiscono la nostra umanità, quelle cattive invece feriscono la nostra persona. Il profeta lo deve dire: guai se non lo dicesse! Nella nostra predicazione questo aspetto è totalmente sparito. Anche perché quei due o tre (falsi) profeti che sono in giro hanno trasformato talvolta questa, che è la penultima parola, nell’ultima parola!

Il profeta Geremia al capitolo 7 afferma in sintesi: Essi, facendo questo, pensano di offendere Dio. Un tempo usavamo a sproposito questa espressione, ma poi non l’abbiamo più utilizzata, perché oggi riteniamo che Dio non possa offendersi e così l’abbiamo censurata! Geremia invece dice: «Ma è proprio me che offendono – oracolo del Signore – o non piuttosto se stessi, a loro stessa vergogna?» (Ger 7,19). Geremia dice questo sulla porta del tempio. Questa però è la penultima parola del profeta. È la parola con cui si mette in luce che le azioni dell’uomo, quando sono gesti di divisione, di separazione, di sfiducia, di lontananza, feriscono le relazioni e rompono quel tessuto di fraternità che invece dovremmo costruire in positivo. Noi possiamo guardare con verità le nostre azioni malvagie, solo se prima, durante e dopo l’agire umano il nostro sguardo è già illuminato dalla misericordia di Dio. Perché Dio ci dice: attento, tu sei anche quello che fai, ma non sei solo quello che fai, vali molto di più! Questo lo capisce bene chi ha commesso qualcosa di grave, soprattutto chi ha un comportamento che ha introdotto in lui una dipendenza: conosciamo le dipendenze classiche come la droga, l’alcol, il gioco, tutte le malattie causate dalla nostra società opulenta. Quando uno giudica se stesso con il proprio metro, gli verrebbe da dire: “Non ce la farò mai a uscire dalla mia dipendenza…”.  Io sono certo anche i miei gesti. Ma se mi guardo con gli occhi di Dio, Egli mi dice: “Tu sei tuoi gesti, ma sei anche molto di più dei tuoi gesti! Sei una persona, sei amato da Dio!”. La nostra sorella rosminiana ci ha testimoniato che è andata in missione per raccontare essenzialmente due cose: l’amore di Gesù e la fraternità della Chiesa!

Tessitori di fraternità
Questa è la chiamata che oggi ci è rivolta. Tale chiamata va spesso in crisi. Il tessuto di fraternità che dovremmo costruire si sbreccia. È come un tessuto di quelli preziosi di qualche vestito che ci è caro, simile ai bellissimi costumi walser che ci sono anche nelle vostre valli. Sappiamo con quanta cura si debba tenerlo e, quando si strappa, non possiamo rammendarlo mettendoci una toppa che sarebbe peggio dello strappo. Allo stesso modo, quando noi rompiamo le nostre relazioni, non ci rendiamo conto quanta finezza, quanta fatica è necessaria, dato che le relazioni non si possono semplicemente rattoppare, ma per ritesserle ci vuole una pazienza infinita. Perché di quella misericordia, come ha detto con linguaggio semplice suor Lilia, possiamo essere testimoni non da soli, ma solamente insieme. La misericordia non può essere testimoniata da soli, perché manifesterebbe la nostra incapacità di riconciliazione.

Ecco, allora, il modo con cui noi dobbiamo guardare alle nostre fatiche, alle nostre difficoltà, a tutto ciò che ferisce la vita comune, la vita fraterna. In questi giorni sto riflettendo sul rapporto tra fraternità e amicizia. L’amicizia è “voler bene” all’altro, la fraternità è “volere il bene” con l’altro. Ciò però va oltre il semplice lo scambio, ma è una relazione abitata dalla presenza del Signore. Lo dice il capitolo 15 del vangelo di Giovanni: «voi siete i miei amici, non vi chiamo più servi» (cfr Gv 15,15). Tra i cristiani il rapporto non è mai di dipendenza, ma è un rapporto che, anche se asimmetrico, tende a costruire un legame buono (“O ti trovo uguale, o ti rendo simile a me”). Questo è il rapporto di fraternità. Oggi abusiamo di questa parola: siamo tutti fratelli! Il tema centrale di questa sera consiste nel fatto che l’annuncio della misericordia è possibile solo se noi lo rendiamo possibile all’interno di una tessitura di fraternità. Aggiungo due conclusioni.

Il titolo che avete sul libretto Tessitori di fraternità allude al fatto che il tessuto, più è ricco, come per esempio il broccato, più è difficile da ricucire e rammendare. Solo le suore dell’isola San Giulio riescono a farlo, perché lavorano con molta pazienza a ritessere i fili sfilacciati. I fili rotti sono difficili da ricucire! Dalla parola tessitura (da textus, cioè tessuto) deriva anche il termine testo. Dunque, vorrei che tutti coloro che sono venuti alla veglia di questa sera fossero anche tessitori della parola di fraternità, del linguaggio di amicizia, delle parole che edificano. Edificante è un termine tipicamente cristiano, perché intende dire che occorre tessere le relazioni tra le persone. Oggi purtroppo l’aggettivo “edificante” è diventato un po’ melenso… Al contrario la nostra chiacchiera, il nostro pettegolezzo sta diventando, come il dice il papa, il “diserbante” delle nostre relazioni. Ecco la domanda che vi lascio: le nostre parole sono parole che tessono le relazioni? Sono un testo che si riesce a leggere e che diventa edificante, capace di infondere fiducia, speranza, incoraggiamento? Questo è l’unica cosa su cui la gente ha un fiuto infallibile, perché coglie se una persona è positiva. Faccio un esempio: se una persona dentro un consiglio pastorale per prima cosa marca la differenza, si lamenta, non è d’accordo, non può essere una persona edificante. Dobbiamo, al contrario, essere tessitori di fraternità anche con i buoni linguaggi: leggendo un testo biblico o ascoltando persone, come i due missionari di cui abbiamo sentito la testimonianza. È stata un’iniezione di speranza!

Forse è per questo – ed è la seconda conclusione – che non riusciamo più a fare incontrare la gente con Dio e Dio con la gente. Mi ha sempre colpito quando, all’inizio della prima lettera, Giovanni dice:

«Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita (…) quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo». (1Gv 1, 1-3)
Aggiunge poi dice una cosa bellissima che vi regalo questa sera:

«Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena» (1Gv 1,4).
Credo che un Vangelo non testimoniato ed annunciato con la stessa grinta di suor Lilia e di don Cesare, non proclamato insieme e non annunciato come fonte di gioia, non sia il Vangelo di Gesù, ma sia ancora la nostra chiacchiera, che ha ancora bisogno di sciacquare i panni dentro la freschezza del Vangelo di Gesù. Perciò vi auguro che questa veglia missionaria, che avviene sempre all’inizio dell’anno pastorale, sia per noi come una sorta di colpo di acceleratore per la nostra vita. Avremo forse ancora molte limitazioni, ma non lasciamo trasformare la mascherina che portiamo in museruola!

+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara