Pentirsi, convertirsi e credere al Vangelo. Omelia per la 26ma domenica del tempo ordinario

Miei cari,
il passo evangelico di oggi (Mt 21,28-32) è in continuità con quanto domenica scorsa abbiamo già affrontato: l’invito a lavorare nella vigna del Signore, cioè vivere in grazia di Dio, e a non fare il contrario, creando in noi una situazione di peccato. Nell’episodio evangelico di oggi si narra, infatti, di due fratelli, il primo dei quali, all’invito del padrone ad andare «a lavorare nella vigna», rifiuta di farlo istintivamente ma, poi, riflettendo tra sé e sé e pentendosi, aderisce con gioia alla chiamata; il secondo, che risponde positivamente all’invito, non vi si reca, restandone fuori.

La condizione dell’uomo e della donna nella scelta del bene

La situazione descritta non è singolare e neanche infrequente. Essa accompagna il cuore di ogni uomo e donna. Se ne trova eco nella prima lettura di oggi, tratta dalle profezie di Ezechiele (18,25-28), nella quale viene ribadito: «Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso. E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà» (Ez 18, 27-28). Come a dire che la scelta della salvezza è un’opzione personale e libera; non è mai scontata né tanto meno assicurata da qualsivoglia appartenenza ecclesiale né garantita una volta per tutte. Il credente di ogni tempo si trova quotidianamente di fronte all’appello di Dio e tante sono le tentazioni che si frappongono alla Sua Grazia. Le prove vanno perciò affrontate tanto da chi si è ritenuto «giusto» quanto da chi è considerato «malvagio». Il libero arbitrio, di cui ogni persona è dotata, mette sempre in discussione, tutti soffrano l’arduo cammino che esige e non vi sono garanzie assolute di solidità, per la fragilità che connota la nostra condizione di peccatori. Dio in tutto questo non è mai assente. Egli ci accompagna e ci chiama costantemente «a lavorare nella vigna», a condividere, cioè, la gioia del suo Regno di amore, di giustizia e di pace.

La struttura desolante del peccato

C’è un passo più antico, tratto dal libro dell’Esodo, che descrive bene gli effetti che il peccato produce nell’uomo e nella donna. È scritto: «io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che visita la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano» (Es 20,5). Sono parole che possono incutere paura se non comprese nel loro significato genuino. L’antico autore ribadisce a scanso di equivoci che ogni struttura di peccato lacera la condizione dell’uomo e della donna, sfigurandone l’immagine e somiglianza con Dio, addirittura producendo effetti nei figli e nei figli dei figli. A volte non pensiamo a questo, ma il peccato, anche quello che riterremmo più personale e mascherato, ha questa forza devastante di lacerare, lasciando traccia in coloro che amiamo. Infatti, così come il bene, irradiandosi, produce il bene, il peccato ha la stessa capacità. Non è, perciò, uno scherzo! Il peccato è ombra di morte, che produce la morte spirituale, anche se con i nostri sensi non lo avvertiamo. Il peccato è orribile. Ecco perché Dio visita, interviene, si fa presente con la sua grazia per risanare e ricomporre l’armonia del bene, della verità, della bellezza delle creature e del creato stesso. Il massimo del suo intervento è compiuto nella pienezza dei tempi col Sacrificio del Figlio suo, Gesù, come dice la seconda lettura di oggi: Gesù «pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore! a gloria di Dio Padre» (Fil 2,6-11)

I due fratelli: le nostre due anime che si combattono

Torniamo allora alla parabola evangelica, dopo questa premessa. Quei due figli rappresentano in un certo senso due atteggiamenti che albergano nel nostro cuore: l’istinto e l’apparenza.
L’istinto spesso ci accompagna con una dose di spontaneismo che ci fa rifiutare l’invito a vivere in grazia di Dio. Spesso la prima parola che emerge dirompente in noi è proprio questa: subito diciamo “no” all’invito di Dio, di fronte alle tentazioni che incombono. Crediamo, con l’aiuto del clima nel quale viviamo, che il nostro “aver voglia di fare o di non fare” sia la strada più giusta; spesso crediamo che la nostra “spontaneità”, con l’ausilio dell’odierna cultura, sia la strada più corretta per vivere bene. Spesso scambiamo questi atteggiamenti con la “sincerità” e riteniamo che questa “sincerità presunta” sia tanto più vera quanto più assomigli alla schiettezza, alla franchezza, alla naturalezza. Mossi da queste “voglie” e da questi “spontaneismi” viviamo tratti di vita, credendo di agire per il meglio e non ci accorgiamo di cadere in un’ambiguità più grave con effetti devastanti. Ma è veramente così? Se fosse vero che l’ “aver voglia” o la “spontaneità” siano la regola di vita, chi di noi allora troverebbe la forza di lavorare o di studiare, quando non ha voglia? Oppure, se la spontaneità regolasse il nostro decidere di pregare, chi mai lo farebbe? No, non sono gli istinti che devono regolare la nostra vita. Siamo di più: siamo anche intelletto e cuore. C’è bisogno anche di una pausa prima di agire, che comporta il rientrare in se stessi, riflettere e ripensare e non seguire pedissequamente gli istinti delle proprie voglie e dei propri spontaneismi … Atteggiamenti tutti che connotano il primo fratello della parabola che, rientrato in se stesso, lasciando che l’istinto si calmi e ritrovi il suo posto, decide poi, con più lucidità, con la testa e con il cuore, che, forse, la prima risposta data al Signore non era la migliore, tanto da cambiare idea e «andare nella Vigna», cioè verso il bene, per dare una svolta positiva alla sua vita. In altre parole, si converte!
Il secondo fratello, il peggiore, è, invece, colui che vive di apparenze e formalità; è tiepido e formalmente corretto nelle risposte ma ipocrita nella vita, dando luogo a situazioni anche peggiori, che si possono trasformare alla lunga – se ci pensate – in disprezzo per l’altro, sino a giungere al razzismo; oppure, alla bramosia di potere, pur di non perdere la faccia di fronte al consenso, … e tante altre degenerazioni che creano abissi e strutture di peccato tanto in lui quanto in chi lo circonda, con grave scandalo dei più semplici, quando si rivestono posizioni apicali. Anche in questo secondo caso la cronaca offre esempi di turpitudine e di iniquità. Lascio a voi ulteriori riflessioni.

La strada evangelica: Pentirsi, convertirsi e credere al Vangelo!

Cosa dice questo a noi? Che non esiste una vita cristiana fatta a tavolino, scientificamente costruita, dove basta adempiere qualche dettame per acquietarsi la coscienza: la vita cristiana è un cammino umile di una coscienza mai rigida e sempre in rapporto con Dio, che sa pentirsi e affidarsi a Lui nelle sue povertà, senza mai presumere di bastare a sé stessa. Così si superano le edizioni rivedute e aggiornate di quel male antico, denunciato da Gesù nella parabola: l’ipocrisia, la doppiezza di vita, che si accompagna al legalismo, il distacco dalla gente. La parola chiave è pentirsi: è il pentimento che permette di non irrigidirsi, di trasformare i no a Dio in sì, e i sì al peccato in no per amore del Signore. La volontà del Padre, che ogni giorno delicatamente parla alla nostra coscienza, si compie solo nella forma del pentimento e della conversione continua. In definitiva, nel cammino di ciascuno ci sono due strade: essere peccatori pentiti o peccatori ipocriti. Ma quel che conta non sono i ragionamenti che giustificano e tentano di salvare le apparenze, ma un cuore che avanza col Signore, lotta ogni giorno, si pente e ritorna a Lui. Perché il Signore cerca puri di cuore, non puri “di fuori”.
Buona domenica!

Padre Marco